Aggiornato il
23/08/2004
Barche e sandwich
So di scatenare malumori con
questo articolo.
Forse però qualcuno sarà anche
d’accordo con me, forse. Tutto nasce da una fatto che racconto.
L’incidente alla “Francese”
Passeggiavo vicino
al cantiere in cui ero all’ormeggio quando vidi spostare, con una enorme gru,
una bellissima e apparentemente nuova barca di un noto cantiere francese. Un 45
piedi che era un vero gioiello. Guardando meglio notai che l’opera morta era in
più punti sciupata da evidenti urti e il core del sandwich esposto all’aria e
alla vista. Sembrava un animale ferito a vederlo da vicino.
Mi misi a
chiacchierare con il solito collega d’ormeggio che era da quelle parti e
scoprii la triste storia. La barca, di un noleggiatore locale, aveva avuto un
incidente in uscita dal porto. Causa il mare un po’ agitato e l’improvviso
blocco del motore la barca era andata a scogli. Trattandosi di un charter,
tipicamente composto da gente che di mare non sa nulla, nessuno pensò a buttare
a riva un po’ di stoffa e il risultato fu un prolungato e forte sbattimento
dell’opera morta sugli scogli frangiflutti. Nulla di grave per carità: fosse
stata di ferro magari non si fermava nemmeno a vedere i danni. Purtroppo era di
sandwich e la barca, periti assicurativi presenti, fu dichiarata non più
navigante. Era lì per il disarmo. Provai una specie di fitta allo stomaco.
Vedere un oggetto che valeva a dir poco mezzo miliardo di lire di allora, sono
passati parecchi anni, quasi perfetto in tutto ma smantellato mi faceva
soffrire. E tutto questo per cosa? Fosse stata fatta di vetro resina o di
ferro, magari anche di legno o alluminio sarebbe stata riparata. Quella no, era
da buttare… Da qui nacque in me l’idea di scrivere un articolo che descrivesse
quanto idiota poteva essere la situazione che si stava creando nella nautica.
La vetroresina
Nata negli anni
sessanta rappresentò una svolta nella cantieristica mondiale. Questo grazie ai
quattro assi che aveva nella manica. Gli assi erano nell’ordine.
Lo sviluppo di
questo materiale fu così impetuoso che negli anni ottanta praticamente non
esistevano più barche in commercio che non fossero di vetroresina. Ci voleva
proprio l’amatore per trovare qualcosa di diverso. Non fu una scelta errata. Il
tempo ha dato ragione ai propugnatori della tesi e io stesso ho posseduto una
barca assai vecchia in vetroresina che era perfetta. Esattamente perfetta come
quando la ho rivenduta senza, è bene dirlo, avergli fatto nulla, ma proprio
nulla, di manutenzione straordinaria.
Unico difetto
noto della vetroresina era ed è l’osmosi. Nulla rispetto a cosa accadrà alle
barche in carbonio con effetto di auto pumping!
Il sandwich
Inventato secoli
fa si basa sulla constatazione
del tubo. Un tubo che sia
pieno o vuoto (cilindro) resiste presso a poco nello stesso modo agli sforzi di
flessione. Il motivo, evidente, è che solo gli strati esterni interagiscono con
le forze mentre allontanandosi dallo strato esterno verso l’interno gli sforzi
diventano sempre meno evidenti. I mobili “tamburati” altro non sono che il
sandwich dei secoli scorsi.
Fu riesumato
dalla aeronautica con il nome Honeycomb.
Si trattava di un nido d’ape di alluminio, leggero come la carta velina,
chiamato core, e ricoperto da due facce anch’esse sottilissime, chiamate skin o
pelli.
Un materiale
eccezionale per leggerezza e resistenza. Con il passare del tempo lo strato
interno, core, venne sostituito da materiali meno complessi meccanicamente ma
assai evoluti come il Termanto, Pvc, Glegecell, San ecc.
Tutte specie
simili, per dirla grossolanamente, al polistirolo ma con alte prestazioni.
Ovviamente c’erano dei problemi noti, guarda caso l’assorbimento d’acqua da
parte dei manufatti ma, nonostante questo…
I produttori di
barche presero al volo l’occasione e, magnificando prestazioni eccezionali,
iniziarono anche loro a usare il sandwich.
Sandwich e nautica
Ovviamente non fu
utilizzato il pregiato Honeycomb ma, udite udite, la balsa e il cartone. Si, i materiali meno marini in assoluto dopo
la mollica di pane finivano
in mare con il nome di barche. Chi non ha mai visto una coperta in sandwich di
balsa alzi una mano. Nessuno disse che il sandwich, per sua natura, è fatto per
resistere a carichi distribuiti, come ad esempio l’aria che scorre sulle facce
di un’ala, oppure il peso della fusoliera si di un longherone centrale. I
carichi puntuali erano visti con terrore. Ebbene, poiché molti si resero conto
che usare il sandwich nell’opera viva, l’unica parte a carico distribuito, era
un suicidio industriale, e considerando che in una barca, specie a vela, il
carico deve essere in basso e non in alto, il sandwich venne usato per l’opera
morta e, in abbondanza, per i ponti. Tutte zone dove parabordi, urti in
banchina, il calpestio, la caduta di oggetti rendeva il manufatto
delicatissimo. Ma tanto era.
Delaminazione
Di barche con più
di dieci anni senza delaminazione della coperta quasi non se ne conoscono. Ma
cosa è la delaminazione? Semplicemente questo. Quando i carichi sulle superfici
del manufatto diventano eccessivi il
sandwich flette o peggio torce e il core si stacca dalle pelli esterne:
si delamina quindi. Una volta accaduto questo la resistenza strutturale crolla,
in quel punto, a zero, ed è come se la barca fosse fatta di un paio di veli di
qualche millimetro di vetroresina. Nulla più a resistere alle forze. Si perché
occorre notare che tutta la storia nasce dal fatto che per ottenere la stessa
resistenza di un laminato pieno di un centimetro bastano due pelli di due
millimetri e un po’ di core nel mezzo(*). Con la differenza che la resina costa
un occhio e il core nulla. Capito le volpi?
(*) Non credo sia
l’articolo giusto per parlare di moduli W, di btd2/2, di cross
linked, wave patterns o della differenza tra Epoxy, Poliestere, Vinilestere
eccetera. Se qualcuno è interessato parliamone.
La differenza di costo
Un guscio, o
scafo, di sandwich costa circa, come avrete capito, il 50% meno di uno
stratificato pieno. Se poi il core è raffinato e la lavorazione ben fatta la
differenza scende anche a meno del 30%. Una bella cifra dirà chi vede le barche
in vendita a centinaia di migliaia di euro. Non è così. In realtà il guscio di
uno scafo rappresenta a mala pena il 25% del costo di una moderna barca.
Albero, vele, motore, finiture interne la fanno da padroni con costi a volte
esorbitanti. In pratica tra una barca stratificata in pieno e una di cartone
foderato la differenza di costo “reale”,
all’utente finale è, a mala pena, del 10%. Un’inezia.
I pregi
Non voglio essere
eccessivo e parlo quindi anche dei pregi. Si possono riassumere in tre punti.
Ispezioni
In aeronautica
non ci sono problemi. Macchine per i raggi X, ecografi a singola e doppia
sonda, analizzatori fino a decine di MHz delle onde superficiali permettono una
perfette ispezione di ogni parte. Magnifico! Si peccato che in mare questa roba
non si usa. A parte il costo stratosferico delle apparecchiature il personale
in grado di usarlo dove lo trovate: non vorrete mica portare la barca a Fiumicino
o a Linate?
Nessuno lo dice
ma il sandwich delle barche è totalmente non ispezionabile. E pensare che la
prima regola di un progettista nautico è proprio permettere l’ispezione della
nave. Alla faccia della coerenza.
I compositi avanzati
Poiché al peggio
non c’è limite, e nemmeno alle bischerate, si è voluto usare anche quelli che
vengono chiamati compositi avanzati. Ovvero fibre di Kevlar® o di carbonio al
posto dell’umile e sano vetro. Per carità. Nulla da dire sulla tecnologia. Dal
Boeing 777 alla Ferrari di F1 questi materiali impazzano e con ragione. Specie
se si butta tutto dopo qualche decina o al massimo migliaio di ore d’uso. Ma
con le barche? Qui i pregi sono solo l’esasperazione delle prestazioni, che io
dubito servano a qualcuno, e una serie di guai che non finiscono più. Ne cito
un paio tanto per gradire.
Effetto pompa
Come ho già detto
l’osmosi è l’unico difetto della vetroresina. In effetti è una anomalia nata
solo di recente a causa della pessima realizzazione, e dei cattivi materiali
messi in opera, da qualche cantiere. L’osmosi altro non è che l’infiltrazione
d’acqua all’interno dello stratificato di vetro che, a lungo andare, danneggia
lo stesso generando bolle più o meno grandi che denotano il danneggiamento.
Nel caso del
carbonio si unisce alla osmosi tipica della matrice, perché è questa che soffre
di osmosi e non le fibre, l’effetto pompa del carbonio. Tutti i materiali
filiformi hanno la tendenza, vetro incluso, a dilatarsi in senso longitudinale
più di quanto non ci si aspetterebbe dalla teoria. Questo genera quindi
problemi di tenuta tra i fili del tessuto e la matrice stessa. Nel caso del
carbonio questo fenomeno è amplificato al massimo al punto che le variazioni di
temperatura del manufatto generano un vero e proprio effetto pompa del
materiale. In pratica i fili a caldo si allungano strizzandosi, e lasciando
quando spazi all’umidità. Quando si riaccorciano “pompano” acqua negli starti
più esterni in un ciclo infinito. Infinito fino a quando la parte in carbonio
non cede. Non per nulla i costruttori di aerei prevedono prove e test proprio
per controllare questo pericolosissimo fenomeno.
I fulmini e il carbonio
Una delle tante
cose che la gente non sa è che il carbonio attira i fulmini. Riporto una frase del
grande Soldini tratta da una intervista da lui rilasciata.
“A circa 15 miglia dal
traguardo - ha detto Giovanni Soldini - ero completamente attorniato da
fulmini. Ho l’albero in carbonio e anche la barca è in carbonio. E il carbonio
attira i fulmini...”
Di per sé sarebbe
mal di poco: anche il ferro e l’alluminio, anche se molto meno per questioni
molecolari, attirano i fulmini. Il problema è che a differenza di questi ultimi
il carbonio “scoppia” in caso di scarica elettrica. No. Non è che esploda come
una bomba. Semplicemente, essendo solo un mediocre conduttore di corrente
elettrica, la sovra-temperatura che si genera al suo interno a causa dello
scorrere degli elettroni provoca un fenomeno di “degassamento” della matrice e
quindi come tante microscopiche pentole a pressione il materiale scoppia
superficialmente lasciandovi senza struttura. È un fenomeno ben noto ai
progettisti aeronautici che di fatti proteggono le strutture, eventualmente
lasciate all’esterno, con fogli di alluminio connessi tra loro e che per
l’occasione vengono chiamati,
pomposamente, “grounding stub”. Per motivi di copyright non posso
inserire le foto di un’ala colpita da un fulmine e riportata in un noto libro
specialistico. Basterebbe vederla per capire come, in mare, non sia il caso di
fare certi giochi di prestigio.
Conclusione
Chi si può
permettere una villa, magari arredata stile Luigi XIV, farebbe fare le
fondamenta in carton gesso e il tetto di ondulina da polli? Non capisco allora
perché ci sia chi compra barche arredate in ciliegio e mogano, con attrezzature
da missione Shuttle, e poi debba avere tra se e il mare il polistirolo. Sarò
cretino ma non lo capisco!
Di Paolo
Lavacchini