Inserito il
04/09/2004
La rifrazione atmosferica
Il presente
articolo descrive un fenomeno molto noti agli astronomi ma molto meno ai
principianti.
La prima cosa che
stupisce è che, anche se la terra fosse immobile rispetto alle stelle,
occorrerebbero comunque dei calcoli complicati di latitudine e longitudine per
capire dove realmente si trova un oggetto celeste pur conoscendone
perfettamente la posizione assoluta.
Perché questo
visto che l’orizzonte
celeste è assolutamente
stabile rispetto a quello terrestre, almeno nell’arco delle decine di ore?
Il problema si
chiama rifrazione
atmosferica.
Il fatto è che
l’atmosfera, purtroppo, ha un indice di rifrazione diverso da quello del vuoto.
In molti testi di ottica si usa dire che
questi indici sono uguali tanto che essi vengono posti a 1 entrambi.
In realtà il
vuoto ha davvero un indice, essendo il
riferimento di rapporto con tutte le altre misure, uguale ad 1.
Per informazione
di solito viene chiamato nei testi con lettera n.
L’aria, invece,
ha un indice diverso che è superiore e presso a poco uguale a 1.0003 in condizioni standard.
Una sciocchezza
apparentemente ma un disastro per un astronomo.
Questa piccola
differenza applicata ad una enorme lente, come è l’atmosfera, di quasi 60 Km di
spessore genera errori che a terra possono essere elevati. Dico 60 Km perché
così usano gli astronomi quando parlano di atmosfera standard.
Per capire
l’entità dell’errore basti pensare che noi vediamo il sole già sorto ben 2 minuti prima che questo effettivamente lo sia. Cioè lo
vediamo quando è ancora sotto l’orizzonte!
Nel disegno sotto
vediamo cosa accade. Mentre noi osserviamo un punto del cielo Aa (angolo
apparente) in realtà stiamo guardando un punto Ar (angolo reale) che è più
basso di quanto crediamo. La luce camminerà come vedremo dopo secondo una
curva.
La curva è ovviamente esagerata per far
capire(!)
La rifrazione
varia nello scendere verso terra intensificandosi a causa della maggiore
densità dell’aria, da cui deriva la
curva.
Inoltre varia con
la composizione chimica dell’aria stessa che non è uguale per tutte le
altitudini, ivi compresa l’umidità e la presenza in sospensione di polveri o
altri gas estranei che ne altera la rifrazione propria.
Per fortuna
questo ultimo fenomeno, variazione della composizione, può essere ignorato
essendo valutato pochi secondi d’arco, cioè quasi nulla, grazie al fatto che
l’atmosfera è abbastanza omogenea e prevedibile oltre i 2000/3000 metri. È
chiaro che a monte Palomar la pensano diversamente ma noi non siamo
lì. Ben diversa è invece la variazione di densità.
In pratica la
luce che ci raggiunge forma una specie di parabola (ma non è una parabola) che
curva in base ai parametri atmosferici che essa incontra. La variazione è data
secondo la nota formula PV=kT, detta anche legge dei gas perfetti.
Dal fattore kT/P, cioè dalla variazione della pressione e della temperatura in
relazione all’altezza ne deriva l’indice di densità relativo al gas e quindi
l’indice di rifrazione.
È vero che tutte
e due scendono ma il rapporto T/P è tutt’altro che una costante. Poiché scende
molto più P di quanto non faccia T il moto risultante del raggio di luce è
assolutamente non lineare.
Per poter
descrivere analiticamente la cosa occorre la formula chiamata ray path model.
La formula ci
indica con un Ө relativo all’altitudine z’ e alla declinazione di osservazione δ l’errore commesso.
Ovviamente
l’integrale è relativo a f(z’’) ovvero alla funzione dell’indice di
rifrazione in relazione alla quota, mentre la funzione f(z’o) è la stessa ma a partire dalla quota d’osservazione. Una funzione
assai difficile da trovare!
Si noti che è
fondamentale l’angolo di osservazione δ. Più infatti ci si avvicina
all’orizzonte e più è lungo il tragitto che la luce deve compiere per
raggiungerci. Al contrario, andando verso lo zenith della nostra posizione
l’effetto si annulla pian piano fino a diventare 0 a 90 gradi precisi di
elevazione. In questo caso la rifrazione, essendo in asse, non esiste più.
Per fortuna ci
sono strade assai meno impervie di questo approccio del ray path model.
Qualcuno ha infatti cercato di semplificare la cosa, ponendo come condizione
essenziale che tutto si basi su di un termine Id, o indice o andamento
generale, uguale a:
e considerando la temperatura
decrescente in maniera lineare di -6.5 °K ogni 1000 metri. Ovviamente riporto solo un pezzo della formula intera che è
comunque complicata. C’è di meglio, ma la indico per fare capire quale è la
strada seguita da successivi matematici.
La formula semplice
La seguente
formula chiamata Smart’s formula
permette col primo termine di approssimare l’errore R’ in primi già
discretamente. Col secondo termine il calcolo diventa più preciso. In pratica
si è capito che l’uso della tangente e di alcune costanti permettevano di
approssimare l’andamento cercato con precisione sufficiente ai bisogni di un
astrofilo più o meno dilettante.
Ma si può fare
ancora di meglio. Senza cubi delle tangenti. La seguente formula detta formula
di Bennett è davvero carina è mostra errori molto
bassi.
La formula genera
un errore, di tipo sistematico, che è massimo intorno a 12 gradi di δ, ovvero di angolo visuale da terra, di circa 0.07’ o se preferite
di 4’’ o poco più. Si può scendere ancora, attorno al secondo d’arco ma occorre
una parte suppletiva di formula come segue:
In pratica al
valore già calcolato R’ si toglie l’errore Corr. La precisione come detto
scende a meno di 1’’ d’arco nel peggiore dei casi. Intorno ai 12°. Considerando
che l’osservazione avviene per lo più a forti angoli di osservazione, anche per
i soliti problemi prosaici di posto dove mettere il telescopio, gli errori
della formula possono diventare trascurabili. Specie oltre i 30°.
Per chi poi fosse
proprio uno sfaticato può sempre interpolare la seguente tabella che riporta
gli errori tra 0 e 90 gradi di osservazione con precisione maggiore di 0.1’
d’arco.
Angolo in gradi |
Errore in primi |
Angolo in gradi |
Errore in primi |
0 |
34.5 |
11 |
4.9 |
15’ |
31.4 |
12 |
4.5 |
30’ |
28.7 |
13 |
4.1 |
45’ |
26.4 |
14 |
3.8 |
1.00 |
24.3 |
15 |
3.6 |
1.15 |
22.5 |
16 |
3.3 |
1.30 |
20.9 |
17 |
3.1 |
1.45 |
19.5 |
18 |
2.9 |
2.00 |
18.3 |
19 |
2.8 |
2.15 |
17.2 |
20 |
2.6 |
2.30 |
16.1 |
25 |
2.1 |
2.45 |
15.2 |
30 |
1.7 |
3.00 |
14.4 |
35 |
1.4 |
4.30 |
10.7 |
50 |
0.8 |
5 |
9.9 |
55 |
0.7 |
6 |
8.5 |
60 |
0.6 |
7 |
7.4 |
65 |
0.5 |
8 |
6.6 |
70 |
0.4 |
9 |
5.9 |
80 |
0.2 |
10 |
5.3 |
90 |
0.0 |
Conclusione
Anche se
approssimative queste formule dovrebbero essere sufficienti a chiunque voglia
calcolare nel suo posto di osservazione cosa accade a quel raggio di luce, che
non vuole andare diritta in nessun modo, e che vuole invece raccogliere con il
suo strumento.
È bene ricordare
che gli errori, quando si scende al secondo d’arco, diventano obbiettivamente
imprevedibili. Per scendere sotto a questi valori occorrerebbero dati che in
pratica non abbiamo mai. Oltre a tutto penso che il solo errore di
posizionamento tra asse polare e asse telescopico/meccanico sia, in media, assai più grande. Direi che possiamo accontentarci
senza bisogno dell’integrale della
radice dei quozienti di una funzione… ignota.
Paolo Lavacchini
P.S.
Non essendo io un
astronomo aggiungo che chi avesse qualcosa da aggiungere o trovasse Orrori di
stOmpa mi può scrivere p.lavacchini@tin.it
per migliorare ciò che è possibile.